è il terzo anno consecutivo che partecipo alle commemorazioni dell’anniversario della strage di via d’Amelio a Palermo. Ogni volta lascio Palermo con un corredo di emozioni che sul momento non riesco ad ordinare. E queste oscillano dalla sensazione di crescita personale alla fiducia per il futuro passando per un profondo scoramento .

Al convegno nel cortile della facoltà di giurisprudenza i magistrati Scarpinato, Ingroia e Di Matteo ci hanno spiegato, con il loro linguaggio preciso, pesato e inequivocabile la situazione in cui ci troviamo. Hanno tutti concluso con la richiesta alla società civile di non abdicare il proprio ruolo di vicinanza alla magistratura e la propria spinta culturale alla ricerca della verità sulle stragi di mafia.

Al meglio delle mie capacità queste sono le mie osservazioni:

Il giudice Scarpinato (che ha ripreso concetti espressi in modo per me liberatorio nel suo libro “Il Ritorno del Principe”) ha focalizzato l’attenzione sul fatto che la verità storica e quella processuale non combaciano perché la magistratura non è mai riuscita a assicurare alla giustizia i mandanti degli omicidi mafiosi. Ha illustrato le dinamiche sempre uguali di eliminazione fisica degli esecutori materiali e di impunità dei potenti che non hanno, ad oggi, mai fallito. La magistratura non è mai riuscita a restituire la libertà alla società civile né a sottrarla ai membri delle classi dirigenti che dietro le scene hanno mantenuto il potere attraverso omicidi e stragi.

Il movimento delle Agende Rosse nato dalla spinta di Salvatore Borsellino chiede la verità sulla sottrazione dell’agenda rossa del giudice Paolo depositaria verosimilmente di spunti rivelatori sulla trattativa oscena tra Stato e mafia. Il 19 luglio si riunisce in un presidio in via d’Amelio per impedire che uomini politici vengano a mettere il loro sigillo sulla morte delle vittime. Io ho creduto molto in questo presidio. I vertici attuali delle nostre istituzioni hanno bisogno di sentire tutta la nostra disapprovazione e condanna morale per aver facilitato, taciuto e protetto il “sigillo del potere” sulla verità dei mandanti delle stragi. Salvatore Borsellino sottolinea questo ruolo ad ogni discorso, ma purtroppo mentre chiede ai ragazzi della agende rosse supporto, sia lo scorso anno che questo 2011, maldestramente non ha avuto la forza (credo) di proteggere via d’Amelio dalla visita di Gianfranco Fini fedele “sodale” per 15 anni di un uomo di potere che ha fatto dell’insulto ai magistrati, alla Costituzione e dell’esaltazione di comportamenti omertosi, il suo canovaccio politico. Il risultato prevedibile è stato l’applauso dei presenti e il passaggio ANSA che Salvatore Borsellino ha dovuto giustificare dal palco dicendo che era stato distorto.

A mio avviso retrocedere su queste posizioni è un errore tanto ingenuo quanto pesante. È così che il potere umilia chi gli chiede risposte: impone la sua presenza, (con telecamere al seguito) usa modi gentili e parole di comprensione per far svanire le difese e poi la comunicazione di potere fa il resto per demolire la possibilità che le richieste di verità abbiamo poi passaggi mediatici efficaci. La comunicazione alla nazione sul 19 luglio è che il fratello del giudice uccisoringrazia il presidente della camera.

A via d’Amelio c’è anche una passerella di simboli oltre che di personaggi ciascuno con il proprio logo, che poi si traduce in disattenzione mentre dal palchetto parla (credo per la prima volta) la mamma di un’agente della scorta. Una signora anziana che legge una lettera al figlio morto a 22 anni che aveva efficacemente tenuto nascosto alla fidanzata e alla famiglia il suo servizio di scorta ad un magistrato ad altissimo rischio di attentati.

In questo scenario sono diventato allergico e a tratti imbarazzato dagli slogan: Paolo Vive, Fuori la Mafia dallo Stato, Di Matteo, Ingroia, Scarpinato Siete Voi Il Vero Stato. Non so bene interpretare queste mie sensazioni; identifico questi come cori da tifosi e non di una comunità che fa culturalmente un passo avanti.

Dagli interventi dei magistrati si evince, sempre più chiaro, il messaggio che la verità processuale potrà sempre poco o nulla se non c’è di pari passo una verità/consapevolezza collettiva tradotto in una crescita culturale che si smarchi dai pensieri, opere e omissioni mafiosi. Una società civile quindi che abbia poi gli anticorpi che la proteggano da altre forme di ricatto mafioso. Nessuno dubita che la mafia di oggi ancor più di ieri sia di natura economico finanziario.

Questo scenario mi dà il disagio che mi fa sentire non in comunione con tutte le persone che arrivano a via d’Amelio. La fiducia mi deriva dal fatto che conosco, anche a Palermo, sempre più persone che nella propria vita quotidiana fanno erafforzano scelte che si smarcano dal contesto di quegli stessi pensieri, opere e omissioni mafiose così pervadono la nostra società. Discutono liberamente su come ripensare un’economia che si sottragga al controllo mafioso. Analizzano e decifrano i segnali dei poteri osceni che albergano nelle banche, nei monopoli energetici, informatici, mediatici, produttivi. Persone che cambiano le proprie azioni quotidiane, si muovono in modo diverso, si informano per altri canali, risparmiano, riducono a monte i rifiuti, solidarizzano con il prossimo, filtrano amministratori onesti e li supportano. Oltre ad un lunghissimo elenco di altre azioni più o meno evidenti.

Se non è questa antimafia civile, non riesco al momento ad immaginarmene nessuna altra forma.

La città di Palermo a Via d’Amelio non c’è. Al momento non è in grado di materializzare una richiesta di verità attraverso la propria testimonianza e presenza. (sono certo che ci saranno tempi migliori).

Queste sono le mie riflessioni dello scorso anno.

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